Joey Tempest: «Vi stupite se gli Europe sono migliorati? Ottimo!»

Non si offende la band cult degli anni ’80 se qualcuno preferisce i nuovi lavori. Martedì pubblicano “War of Kings” e abbiamo incontrato il loro leader

Non si offende la band cult degli anni ’80 se qualcuno preferisce i nuovi lavori. Martedì pubblicano “War of Kings” e abbiamo incontrato il loro leader.


Tiene bene, Joakim Larsson, ovvero Joey Tempest, cantante degli Europe. 53 anni, l’aspetto da ex tennista – svedese, ovviamente – si concede alle foto di chi magari non lo riconosce subito (i capelli sono meno selvaggi rispetto a quei dì) ma poi sobbalza appena scopre chi è. Perché QUELLA CANZONE, The Final Countdown, la conoscono tutti, non solo gli ex ragazzi degli 80es. Ciò che la maggioranza non sa, specie chi tipicamente ironizza sui big di quegli anni, è che nei decenni successivi gli Europe si sono guadagnati una rispettabilità che il mondo del metal non concede facilmente.
E sul nuovo album War of kings c’è molta curiosità da parte di chi un tempo non li poteva vedere.
Come mai avete scelto come titolo proprio War of kings, col pianeta che pare un po’ nervoso?
Sì, può far pensare al mondo di oggi. Ma in realtà abbiamo scelto il più suggestivo tra tutti i brani: è un pezzo che nasce da un riff di John Levén un po’ sinistro e maestoso, che mi ha fatto pensare a un libro che ho letto sull’epoca di Eric il Rosso. Però in copertina non abbiamo voluto l’immaginario vichingo che pure nel metal ci può stare. E questo non è un concept album.
È stato un modo per riconnetterti alla Svezia?
Penso di sì. Molte scelte del gruppo e mie personali ci hanno portato lontani: sono anni che non ci vivo, ho vissuto per anni ai Caraibi, ora da 14 anni sto a Londra. Penso e sogno in inglese.
Anche la vostra formazione è tornata quella del 1985. È interessante il fatto che la tua relazione con John Norum sembri l’archetipo Jagger-Richards, cantante estroverso-chitarrista duro e introverso.
Oh, lui ha aspetti molto estroversi, anche se non in pubblico. Siamo come fratelli, abbiamo avuto alti e bassi e da ben 5 album non litighiamo, che per noi è fantastico. L’ho incontrato a 15 anni, e mi sono subito chiesto: come fa un chitarrista come questo a vivere nel mio piccolo villaggio? E’ stato anche la mia più grande ispirazione musicale con tutti i suoi dischi, a partire dai Thin Lizzy, e mi ha incoraggiato come autore. Io scrivevo di nascosto da quando avevo 9 anni, lui mi ha aiutato a tirare fuori la cosa.

Negli anni ’90 la casa discografica sbagliò persino il titolo dell’album nell’invito della presentazione. Erano tutti concentrati sui Pearl Jam

The final countdown ha cannibalizzato anche gli altri singoli di successo da voi pubblicati. Vi ha mai dato sui nervi? Nella comunità hard-rock, pezzi come Rock the night o Stormwind sono ancora importanti, ma è raro che le radio li passino. The final countdown non era stata pensata come singolo, ma come opening track per i concerti. Per quanto non mi sia mai spiegato del tutto il suo successo, non ci ha mai irritati se non quando ci imponevano di farla in playback, perché è divertente da suonare live. Credo sia piaciuta perché è una specie di colonna sonora, trasmette forti vibrazioni.

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